Se penso ai giochi olimpici di Torino del 2006 (e da cittadino mi è capitato di recente, con gli auto celebrativi festeggiamenti per il decennale) mi identifico in Pepe Carvalho, il detective di Manuel Vásquez Montalbán che in Sabotaggio olimpico sbotta: “lo spirito olimpico suscita in me un’angoscia metafisica e concreta”. Come dissentire dallo scrittore spagnolo quando fa pensare al suo investigatore: “Esiste piacere maggiore che l’essere l’unico a godere la propria negazione dei giochi olimpici di Barcellona? Volendo analizzare quel personale rifiuto degli eventi, poteva argomentare che si tratta di baldorie extrasportive trasformate in eccellenti affari urbanistici e mediatici”.
Nel 2006 sollevare obiezioni sulle olimpiadi invernali torinesi significava farsi circondare da tanti Torquemada pronti a trasformare i “dubbiosi olimpici” in vittime di subitanei autodafé, altro che pacifici tedofori al trotto in città! Se uno aveva delle obiezioni diventava automaticamente un antisportivo, un asociale, un fanatico, un reietto. Viveva la solitudine dell’eretico, poiché non era ancora stato tradotto Sabotaggio olimpico e non poteva trovare consolazione in passi come questo: “terminata l’alleanza tra principi, architetti, trafficanti e sponsor, la fragilità dello spettacolo sportivo era eccessiva. Che senso aveva che quelle bambine-rana battessero record di nuoto contro altre bambine-rana? E le bambine ginnaste? Una piccola razza femminoide il cui unico scopo al di là dei movimenti, era di cadere a piè pari e senza perdere l’equilibrio. Sarebbe valso a qualcosa?” Era Barcellona 1992. A Torino 2006, dentro costosi santuari profumati di nuovo e in diretta a reti unificate, le persone impazzivano per il curling, nome fascinoso di uno sport basato su pietre rotolanti (nessuna relazione con il rock) con intorno gente che spazza adoperando strani scopettoni. E dire che da piccolo il nobile gioco delle bocce mi sembrava una cosa noiosa, da nonni di campagna. Forse ci si potrebbe costruire sopra un mondiale e dietro una cortina terminologica di world league avrebbe una sicura ricaduta economica e turistica. Tutto questo è oltraggioso, confuso…e poi, mi direte, cosa c’entra il jazz? Ma certo, in quel meraviglioso minestrone che è Sabotaggio olimpico si trova anche il jazz, magari vicino a Bernard-Henry Levi “che sfoggia i migliori pullover della filosofia postmoderna”. La storia è un thriller con tutti gli ingredienti del caso e spie, ministri corrotti, ambigue figure femminili, rapimenti, mescolati a riflessioni sulla cucina borghese di Escoffier, notazioni esistenziali e punzecchiature allo spirito olimpico, che viene sabotato nelle pagine del romanzo sia materialmente che intellettualmente. Il jazz di Sabotaggio olimpico l’ho analizzato in Sassofoni e pistole; qui vi lascio con riflessioni sulla natura magicheconomica dello sport e una perla “alla Montalbán” da meditazione: “La mia postmodernità è coronata dal fatto che sono in crisi economica ed esistenziale”.